(f. de. b.) Oriana
Fallaci, con questo straordinario scritto, rompe
un silenzio di un decennio. Lunghissimo. La
nostra più celebre scrittrice (lei dice
scrittore e non pronuncia più la parola
giornalista), vive buona parte dell'anno a Manhattan.
Non risponde al telefono, apre la porta di rado,
esce assai di meno. Non dà mai interviste.
Tutti ci hanno provato, nessuno c'è riuscito.
Isolata. Ma la storia e il destino hanno voluto
che il centro della moderna apocalisse si aprisse,
come una voragine dantesca, poco distante dalla
sua bella e letteraria abitazione. L'onda d'urto
di quella mattina dell'11 settembre ha sconvolto
anche la quiete eremitica ed ermetica di Oriana.
Apre la porta, gesto inconsueto del quale sembra
meravigliarsi... Lo sguardo è dolce e
insieme feroce. Oriana lavora da anni a un'opera
molto importante e attesa in tutto il mondo,
fra pile di documenti, in un disordine solo
apparente, con fervore guerresco. Le avevo chiesto
di scrivere quello che aveva visto, provato,
sentito dopo quel martedì e Oriana ha
raccolto su alcuni fogli emozioni, pensieri.
"Su ogni esperienza lascio brandelli d'anima",
aveva scritto qualche anno fa. E' ancora vero,
verissimo. Pensieri forti. Dirompenti. Su cui
ragionare e riflettere. Sull'America, sull'Italia,
sul mondo islamico. Sulla Patria (sorprendente
quel che dice sulla Patria). Invettive e tesi
che nel medesimo tempo sgorgano dal cervello
e dal cuore, o meglio dal cervello attraverso
il cuore. "Qualcuno queste cose doveva
dirle. Le ho dette. Ora lasciatemi in pace.
La porta è chiusa di nuovo. E non voglio
riaprirla", sbotta. I suoi soliti artigli.
Farà discutere. Eccome.
Mi chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi
di rompere almeno stavolta il silenzio che
ho scelto, che da anni mi impongo per non
mischiarmi alle cicale. E lo faccio. Perché
ho saputo che anche in Italia alcuni gioiscono
come l'altra sera alla Tv gioivano i palestinesi
di Gaza. "Vittoria! Vittoria!".
Uomini, donne, bambini. Ammesso che chi fa
una cosa simile possa essere definito uomo,
donna, bambino. Ho saputo che alcune cicale
di lusso, politici o cosiddetti politici,
intellettuali o cosiddetti intellettuali,
nonché altri individui che non meritano
la qualifica di cittadini, si comportano sostanzialmente
nello stesso modo. Dicono: "Bene. Agli
americani gli sta bene". E sono molto
molto, molto arrabbiata. Arrabbiata d'una
rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia
che elimina ogni distacco, ogni indulgenza.
Che mi ordina di rispondergli e anzitutto
di sputargli addosso. Io gli sputo addosso.
Arrabbiata come me, la poetessa afro-americana
Maya Angelou ieri ha ruggito: "Be angry.
It's good to be angry, it's healthy. Siate
arrabbiati. Fa bene essere arrabbiati. È
sano". E se a me fa bene io non lo so.
Però so che non farà bene a
loro, intendo dire a chi ammira gli Usama
Bin Laden, a chi gli esprime comprensione
o simpatia o solidarietà. Hai acceso
un detonatore che da troppo tempo ha voglia
di scoppiare, con la tua richiesta. Vedrai.
Mi chiedi anche di raccontare come l'ho vissuta
io, quest'Apocalisse. Di fornire insomma la
mia testimonianza. Incomincerò dunque
da quella. Ero a casa, la mia casa è
nel centro di Manhattan, e alle nove in punto
ho avuto la sensazione d'un pericolo che forse
non mi avrebbe toccato ma che certo mi riguardava.
La sensazione che si prova alla guerra, anzi
in combattimento, quando con ogni poro della
tua pelle senti la pallottola o il razzo che
arriva, e rizzi gli orecchi e gridi a chi
ti sta accanto: "Down! Get down! Giù!
Buttati giù". L'ho respinta. Non
ero mica in Vietnam, non ero mica in una delle
tante e fottutissime guerre che sin dalla
Seconda Guerra Mondiale hanno seviziato la
mia vita! Ero a New York, perbacco, in un
meraviglioso mattino di settembre, anno 2001.
Ma la sensazione ha continuato a possedermi,
inspiegabile, e allora ho fatto ciò
che al mattino non faccio mai. Ho acceso la
Tv. Bè, l'audio non funzionava. Lo
schermo, sì. E su ogni canale, qui
di canali ve ne sono quasi cento, vedevi una
torre del World Trade Center che bruciava
come un gigantesco fiammifero. Un corto circuito?
Un piccolo aereo sbadato? Oppure un atto di
terrorismo mirato? Quasi paralizzata son rimasta
a fissarla e mentre la fissavo, mentre mi
ponevo quelle tre domande, sullo schermo è
apparso un aereo. Bianco, grosso. Un aereo
di linea. Volava bassissimo. Volando bassissimo
si dirigeva verso la seconda torre come un
bombardiere che punta sull'obiettivo, si getta
sull'obiettivo. Sicché ho capito. Ho
capito anche perché nello stesso momento
l'audio è tornato e ha trasmesso un
coro di urla selvagge. Ripetute, selvagge.
"God! Oh, God! Oh, God, God, God! Gooooooood!
Dio! Oddio! Oddio! Dio, Dio, Dioooooooo!"
E l'aereo s'è infilato nella seconda
torre come un coltello che si infila dentro
un panetto di burro.
Erano le 9 e un quarto, ora. E non chiedermi
che cosa ho provato durante quei quindici
minuti. Non lo so, non lo ricordo. Ero un
pezzo di ghiaccio. Anche il mio cervello era
ghiaccio. Non ricordo nemmeno se certe cose
le ho viste sulla prima torre o sulla seconda.
La gente che per non morire bruciata viva
si buttava dalle finestre degli ottantesimi
o novantesimi piani, ad esempio. Rompevano
i vetri delle finestre, le scavalcavano, si
buttavano giù come ci si butta da un
aereo avendo addosso il paracadute, e venivano
giù così lentamente. Agitando
le gambe e le braccia, nuotando nell'aria.
Sì, sembravano nuotare nell'aria. E
non arrivavano mai. Verso i trentesimi piani,
però, acceleravano. Si mettevano a
gesticolar disperati, suppongo pentiti, quasi
gridassero help-aiuto-help. E magari lo gridavano
davvero. Infine cadevano a sasso e paf! Sai,
io credevo d'aver visto tutto alle guerre.
Dalle guerre mi ritenevo vaccinata, e in sostanza
lo sono. Niente mi sorprende più. Neanche
quando mi arrabbio, neanche quando mi sdegno.
Però alle guerre io ho sempre visto
la gente che muore ammazzata. Non l'ho mai
vista la gente che muore ammazzandosi cioè
buttandosi senza paracadute dalle finestre
d'un ottantesimo o novantesimo o centesimo
piano. Alle guerre, inoltre, ho sempre visto
roba che scoppia. Che esplode a ventaglio.
E ho sempre udito un gran fracasso. Quelle
due torri, invece, non sono esplose. La prima
è implosa, ha inghiottito se stessa.
La seconda s'è fusa, s'è sciolta.
Per il calore s'è sciolta proprio come
un panetto di burro messo sul fuoco. E tutto
è avvenuto, o m'è parso, in
un silenzio di tomba. Possibile? C'era davvero,
quel silenzio, o era dentro di me?
Devo anche dirti che alle guerre io ho sempre
visto un numero limitato di morti. Ogni combattimento,
duecento o trecento morti. Al massimo, quattrocento.
Come a Dak To, in Vietnam. E quando il combattimento
è finito, gli americani si son messi
a raccattarli, contarli, non credevo ai miei
occhi. Nella strage di Mexico City, quella
dove anch'io mi beccai un bel po' di pallottole,
di morti ne raccolsero almeno ottocento. E
quando credendomi morta mi scaraventarono
nell'obitorio, i cadaveri che presto mi ritrovai
intorno e addosso mi sembrarono un diluvio.
Bè, nelle due torri lavoravano quasi
cinquantamila persone. E ben pochi hanno fatto
in tempo ad evacuare. Gli ascensori non funzionavano
più, ovvio, e per scendere a piedi
dagli ultimi piani ci voleva un'eternità.
Fiamme permettendo. Non lo conosceremo mai,
il numero dei morti. (Quarantamila, quarantacinquemila...?).
Gli americani non lo diranno mai. Per non
sottolineare l'intensità di questa
Apocalisse. Per non dar soddisfazione a Usama
Bin Laden e incoraggiare altre Apocalissi.
E poi le due voragini che hanno assorbito
le decine di migliaia di creature son troppo
profonde. Al massimo gli operai dissottèrrano
pezzettini di membra sparse. Un naso qui,
un dito là. Oppure una specie di melma
che sembra caffè macinato e invece
è materia organica. Il residuo dei
corpi che in un lampo si polverizzarono. Ieri
il sindaco Giuliani ha mandato altri diecimila
sacchi. Ma sono rimasti inutilizzati. Che
cosa sento per i kamikaze che sono morti con
loro? Nessun rispetto. Nessuna pietà.
No, neanche pietà. Io che in ogni caso
finisco sempre col cedere alla pietà.
A me i kamikaze cioè i tipi che si
suicidano per ammazzare gli altri sono sempre
stati antipatici, incominciando da quelli
giapponesi della Seconda Guerra Mondiale.
Non li ho mai considerati Pietri Micca che
per bloccar l'arrivo delle truppe nemiche
danno fuoco alle polveri e saltano in aria
con la cittadella, a Torino. Non li ho mai
considerati soldati. E tantomeno li considero
martiri o eroi, come berciando e sputando
saliva il signor Arafat me li definì
nel 1972. (Ossia quando lo intervistai ad
Amman, luogo dove i suoi marescialli addestravano
anche i terroristi della Baader-Meinhof).
Li considero vanesi e basta. Vanesi che invece
di cercar la gloria attraverso il cinema o
la politica o lo sport la cercano nella morte
propria e altrui. Una morte che invece del
Premio Oscar o della poltrona ministeriale
o dello scudetto gli procurerà (credono)
ammirazione. E, nel caso di quelli che pregano
Allah, un posto nel Paradiso di cui parla
il Corano: il Paradiso dove gli eroi si scopano
le Urì. Scommetto che sono vanesi anche
fisicamente. Ho sotto gli occhi la fotografia
dei due kamikaze di cui parlo nel mio "Insciallah":
il romanzo che incomincia con la distruzione
della base americana (oltre quattrocento morti)
e della base francese (oltre trecentocinquanta
morti) a Beirut. Se l'erano fatta scattare
prima d'andar a morire, quella fotografia,
e prima d'andar a morire erano stati dal barbiere.
Guarda che bel taglio di capelli. Che baffi
impomatati, che barbetta leccata, che basette
civettuole...
Eh! Chissà come friggerebbe il signor
Arafat ad ascoltarmi. Sai, tra me e lui non
corre buon sangue. Non mi ha mai perdonato
né le roventi differenze di opinione
che avemmo durante quell'incontro né
il giudizio che su di lui espressi nel mio
libro "Intervista con la storia".
Quanto a me, non gli ho mai perdonato nulla.
Incluso il fatto che un giornalista italiano
imprudentemente presentatosi a lui come "mio
amico", si sia ritrovato con una rivoltella
puntata contro il cuore. Ergo, non ci frequentiamo
più. Peccato. Perché se lo incontrassi
di nuovo, o meglio se gli concedessi udienza,
glielo urlerei sul muso chi sono i martiri
e gli eroi. Gli urlerei: illustre Signor Arafat,
i martiri sono i passeggeri dei quattro aerei
dirottati e trasformati in bombe umane. Tra
di loro la bambina di quattro anni che si
è disintegrata dentro la seconda torre.
Illustre Signor Arafat, i martiri sono gli
impiegati che lavoravano nelle due torri e
al Pentagono. Illustre Signor Arafat, i martiri
sono i pompieri morti per tentar di salvarli.
E lo sa chi sono gli eroi? Sono i passeggeri
del volo che doveva buttarsi sulla Casa Bianca
e che invece si è schiantato in un
bosco della Pennsylvania perché loro
si son ribellati! Per loro sì che ci
vorrebbe il Paradiso, illustre Signor Arafat.
Il guaio è che ora fa Lei il capo di
Stato ad perpetuum. Fa il monarca. Rende visita
al Papa, afferma che il terrorismo non le
piace, manda le condoglianze a Bush. E nella
sua camaleontica abilità di smentirsi,
sarebbe capace di rispondermi che ho ragione.
Ma cambiamo discorso. Io sono molto ammalata,
si sa, e a parlare con gli Arafat mi viene
la febbre.
Preferisco parlare dell'invulnerabilità
che tanti, in Europa, attribuivano all'America.
Invulnerabilità? Ma come invulnerabilità?!?
Più una società è democratica
e aperta, più è esposta al terrorismo.
Più un paese è libero, non governato
da un regime poliziesco, più subisce
o rischia i dirottamenti o i massacri che
sono avvenuti per tanti anni in Italia in
Germania e in altre regioni d'Europa. E che
ora avvengono, ingigantiti, in America. Non
per nulla i paesi non democratici, governati
da un regime poliziesco, hanno sempre ospitato
e finanziato e aiutano i terroristi. L'Unione
Sovietica, i paesi satelliti dell'Unione Sovietica
e la Cina Popolare, ad esempio. La Libia di
Gheddafi, l'Iraq, l'Iran, la Siria, il Libano
arafattiano, lo stesso Egitto, la stessa Arabia
Saudita di cui Usama Bin Laden è suddito,
lo stesso Pakistan, ovviamente l'Afghanistan,
e tutte le regioni musulmane dell'Africa.
Negli aeroporti e sugli aerei di quei paesi
io mi sono sempre sentita sicura. Serena come
un neonato che dorme. L'unica cosa che temevo
era essere arrestata perché scrivevo
male dei terroristi. Negli aeroporti e sugli
aerei europei, invece, mi sono sempre sentita
nervosetta. Negli aeroporti e sugli aerei
americani, addirittura nervosa. E a New York,
due volte nervosa. (A Washington, no. Devo
ammetterlo. L'aereo sul Pentagono non me lo
aspettavo davvero). A mio giudizio, insomma,
non è mai stato un problema di "se":
è sempre stato un problema di "quando".
Perché credi che martedì mattina
il mio subconscio abbia avvertito quella inquietudine,
quella sensazione di pericolo? Perché
credi che contrariamente alle mie abitudini
abbia acceso il televisore? Perché
credi che fra le tre domande che mi ponevo
mentre la prima torre bruciava e l'audio non
funzionava, ci fosse quella sull'attentato?
E perché credi che appena apparso il
secondo aereo abbia capito? Poiché
l'America è il Paese più forte
del mondo, il più ricco, il più
potente, il più moderno, ci sono cascati
quasi tutti in quel tranello. Gli americani
stessi, a volte. Ma la vulnerabilità
dell'America nasce proprio dalla sua forza,
dalla sua ricchezza, dalla sua potenza, dalla
sua modernità. La solita storia del
cane che si mangia la coda.
Nasce anche dalla sua essenza multi-etnica,
dalla sua liberalità, dal suo rispetto
per i cittadini e per gli ospiti. Esempio:
circa ventiquattro milioni di americani sono
arabi-musulmani. E quando un Mustafà
o un Muhammed viene diciamo dall'Afghanistan
per visitare lo zio, nessuno gli proibisce
di frequentare una scuola di pilotaggio per
imparare a guidare un 757. Nessuno gli proibisce
d'iscriversi a un'Università (cosa
che spero cambi) per studiare chimica e biologia:
le due scienze necessarie a scatenare una
guerra batteriologica. Nessuno. Neppure se
il governo teme che quel figlio di Allah dirotti
il 757 oppure butti una fiala di batteri nel
deposito dell'acqua e scateni una strage.
(Dico "se" perché stavolta
il governo non ne sapeva un bel niente e la
figuraccia fatta dalla Cia e dall'Fbi va al
di là d'ogni limite. Se fossi il presidente
degli Stati Uniti io li caccerei tutti a pedate
nei posteriori per cretineria). E detto ciò
torniamo al ragionamento iniziale. Quali sono
i simboli della forza, della ricchezza, della
potenza, della modernità americane?
Non certo il jazz e il rock and roll, il chewing-gum
e l'hamburger, Broadway ed Hollywood. Sono
i suoi grattacieli. Il suo Pentagono. La sua
scienza. La sua tecnologia. Quei grattacieli
impressionanti, così alti, così
belli che ad alzar gli occhi quasi dimentichi
le piramidi e i divini palazzi del nostro
passato. Quegli aerei giganteschi, esagerati,
che ormai usano come un tempo usavano i velieri
e i camion perché tutto qui si muove
con gli aerei. Tutto. La posta, il pesce fresco,
noi stessi (E non dimenticare che la guerra
aerea l'hanno inventata loro. O almeno sviluppata
fino all'isteria). Quel Pentagono terrificante,
quella fortezza che fa paura solo a guardarla.
Quella scienza onnipresente, onnipossente.
Quella tecnologia raggelante che in pochissimi
anni ha stravolto la nostra esistenza quotidiana,
la nostra millenaria maniera di comunicare,
mangiare, vivere. E dove li ha colpiti, il
reverendo Usama Bin Laden? Sui grattacieli,
sul Pentagono. Come? Con gli aerei, con la
scienza, con la tecnologia. By the way: sai
cosa mi impressiona di più in questo
tristo ultramiliardario, questo mancato play-boy
che anziché corteggiare le principesse
bionde e folleggiare nei night-club (come
faceva a Beirut quando aveva vent'anni) si
diverte ad ammazzar la gente in nome di Maometto
e di Allah? Il fatto che il suo sterminato
patrimonio derivi anche dai guadagni d'una
Corporation specializzata nel demolire, e
che egli stesso sia un esperto demolitore.
La demolizione è una specialità
americana.
(....)
Oriana Fallaci
Corriere della sera sabato 29 sette