"Il pudore di chiamarla guerra"
Il primo titolo, "Giustizia infinita", fu frettolosamente ripudiato perché, si disse, suonava sconveniente alla sensibilità musulmana, che riserva a Dio l'infinitezza. Alle mie orecchie l'aggettivo suonava appropriato, perché ammetteva che questa lotta - contro il "terrorismo", così chiamato anche lui in attesa di un nome migliore - non avrebbe avuto fine. Infinita: non per onnipotenza, ma per impotenza. Senza fine, non senza confini. In discussione era piuttosto il sostantivo, la giustizia: cui l'aggettivo di infinita faceva da attenuante. Che ripiego questo "Enduring Freedom", e peggio ancora la sua grottesca traduzione: duratura. La libertà sia tenace e immutabile - non durevole, come in un foglio di garanzia quinquennale. La giustizia piuttosto non va nominata invano. Perché la giustizia è un'aspirazione nobile ma l'ingiustizia è una realtà immane. Anche l'infelicità esiste, e la felicità è solo un'attesa: ma l'infelicità coincide con la condizione umana. L'ingiustizia è invece il frutto dell'azione umana, è opera nostra, e non fa che crescere e accumularsi.
L'ingiustizia riempie il mondo e lo tira in basso, e la giustizia è un filo di fumo inseguito dagli sguardi degli schiacciati. Non bisogna prendersi troppa confidenza con la giustizia, neanche con la parola: senza mantenerla. Non solo: la giustizia è il ripudio della vendetta, ma la vendetta è anche la sua antica sorella, una sorella esosa e ricattatrice. Bisogna trattare con discrezione la giustizia in generale (non perciò amarla meno, al contrario!) e specialmente nella risposta all'attacco mosso alle Torri e al Pentagono - lingua di scacchi. Se ci rassegniamo a dire che i morti delle Torri esigono giustizia, e giuriamo di dar loro giustizia, prepariamo la rovina. La punizione per quei morti non è forse giusta? Sì: ma più urgente è la punizione in nome dei vivi, candidati per sorteggio alla prossima impresa dei martiri assassini. Non è un principio assoluto che adesso deve ispirarci: è l'incombenza puntuale di una minaccia.
Noi europei, quando siamo in vena, immaginiamo l'Europa come un'America con le rovine romane e senza pena di morte. Lusinghiera vanità. L'America ha un sentimento accanito della giustizia perché non l'ha ancora strappato via dalla sorellanza con la vendetta. Questo la rende più capace di giustizia - noi siamo duttili, pronti a metterla da parte, la giustizia, in cambio d'altro, che chiamiamo pace, e facciamo dei girotondi per dimenticare il nostro strappo - ma anche più tentata dalla vendetta. Noi, gli italiani, che siamo tra gli europei più precocemente scampati alla pena di morte - e orgogliosi perciò - siamo anche i più pieghevoli all'ingiustizia. Gli inglesi l'hanno appena congedata, la pena di morte, e ne devono avere ancora un ricordo vivo e una nostalgia, che li rende capaci di colpire. Le cose cambiano d'aspetto da un momento all'altro, da un luogo all'altro. "Non c'è pace senza giustizia": gli uni lo dicono per invocare la riduzione delle disuguaglianze nel mondo, e intanto deprecare la risposta alle aggressioni; gli altri lo dicono per esigere che alla pace non sia sacrificata la libertà e il diritto. C'è un Isaia per ogni bandiera.
Il tempo della giustizia dev'essere sempre. Ma ora l'azione contro i nemici non deve incatenarsi al castigo giurato ai morti. Con questo proposito, si indurrà a picchiare forte e alla cieca. A commettere errori, volendoli commettere. Né deve portare i colpevoli davanti a un tribunale, assicurarli alla giustizia, e via. Deve misurarsi con la minaccia. Tener la mira fissata sul pericolo futuro, ammaestrata dall'orrore avvenuto. Far pagare un prezzo anticipato, non saldare un conto.
La pace non c'è: è stata rotta, non in una delle infinite e orrende guerre al dettaglio che corrono la terra e esorcizzano la guerra in grande, ma nel mondo. Un mondo contro un altro: qualunque nome sia destinato a prendere l'uno e l'altro. Non c'è la pace, non c'è la giustizia. C'è una guerra. Non ci si arrende alla cosa chiamandola col suo nome. Al contrario. È infame, e c'è.
È strano come si vogliano chiudere gli occhi. Al tempo del Kosovo, quando importava negarle il nome di guerra e imporle il nome di azione di polizia internazionale, perché così si sarebbe riconosciuta la necessità dell'intervento ma se ne sarebbero contestati i metodi guerreschi (delle bombe dall'alto, a rischio zero, della potenza overwhelming e degli errori naturali), nessuno voleva prestarsi a quel futile gioco di parole. Gente seria: la Guerra del Kosovo! Oggi ci si impegna a negare il nome di guerra, magari per chiamare la cosa operazione di polizia. Una pattuglia di ufficiali giudiziari ammanetterà Bin Laden e i suoi, leggendo loro i diritti. Al tempo della guerra del Golfo (altra guerra! Si chiamò allora guerra una cosa imbarazzante in cui da una parte non muore nessuno, dall'altra cento o duecentomila soldati!) ci furono i fautori strenui dell'embargo, come strumento pacifico per liberare il Kuwait, riportare la giustizia e sventare la guerra. Ora ci sono fautori del Tribunale Penale internazionale, che hanno finora per lo più ignorato o deriso. Ci sono fautori dell'Onu: peccato per la sua maggioranza di Stati dispotici, per la sua inerzia o complicità nei confronti di genocidi e stragi, per il suo Consiglio di Sicurezza con la Siria appena entrata, nel giorno in cui i capi siriani dichiaravano legittime contro Israele tutte le armi, compresi i kamikaze.
L'azione militare è ora vidimata dall'Onu in nome della legittima difesa. La legittima difesa non è la giustizia: è una deroga necessaria alla giustizia. Se l'azione degli americani e degli inglesi è, come dev'essere, di legittima difesa, non deve ingannarsi né ingannare sulla giustizia. Il diritto alla legittima difesa non è condizionato dall'innocenza dell'aggredito. La giustizia è un'aspirazione assoluta. La legittima difesa è duttile e relativa. Il suo criterio è l'efficacia, purché non tradisca i valori che vuole difendere: a cominciare dalla cura delle vite degli afgani innocenti come di vite proprie.

Adriano Sofri
20 ottobre 2001